Tra i temi più discussi alle ultime conferenze internazionali su Hiv/AIDS c’è l’importanza universalmente riconosciuta all’introduzione di un nuovo approccio “patient based”, ossia basato sulle esigenze del paziente, nella presa in carico di quest’ultimo all’intento dei percorsi di prevenzione e cura dell’infezione.
Se ne è parlato nel corso dell’ultima edizione di ICAR, congresso sull’AIDS e la ricerca antivirale tenutosi lo scorso giugno 2024 a Roma, il cui claim - Research and care: from bench, to bedside, to community - ha evidenziato l’urgenza di mettere le persone al centro della ricerca clinica grazie ai nuovi strumenti a disposizione, i trattamenti long acting, preparazioni farmaceutiche a cessione protratta che rendono possibile la personalizzazione dei piani terapeutici.
«Siamo alle porte di una nuova era nella somministrazione dei farmaci in cui è il paziente a dare l’indicazione per la terapia», evidenzia Giovanni Guaraldi, docente di malattie infettive a UNIMORE: «Con i long acting non si riduce solo lo stigma sociale ma anche il “self stigma”, quella voce interiore che mi ricorda ogni giorno, ad ogni pillola deglutita, dell’infezione contratta, condizionando il mio vissuto spesso a discapito dell'adesione alle terapie e dell'accesso ai servizi sanitari».
«Le terapie del futuro saranno - come già in larga parte sono - “a lento rilascio” in ogni branca della medicina, dalla reumatologia alla ginecologia e dall'endocrinologia alla malattie infettive. Ed il concetto stesso di long acting sarà declinato in modelli di vario tipo: “a serbatoio”, ad esempio, ossia a lento rilascio sottocutaneo, o con sistemi di compresse che si aprono e restano nello stomaco. A cambiare non è soltanto l’innovazione farmaceutica ma piuttosto l’approccio definito "patient centred”, in cui è la persona a il percorso di cura più adatto alle sue esigenze».
«Il medico deve sapere ascoltare il paziente - conoscerne le sue abitudini lavorative, il contesto socio-familiare, lo stile di vita - per raccogliere informazioni utili alla definizione del suo piano terapeutico. E la ricerca clinica deve orientarsi a un approccio “patient-reported outcome”, in cui è il paziente stesso a fornire informazioni su un trattamento o una specifica condizione, riportando i propri risultati di salute». Così l’esperienza di ogni persona si traduce in dati misurabili, confrontabili e utilizzabili nel valutare l’efficacia di una cura.
«Con le terapie long acting - conclude Guaraldi - si apre l’era della “patient preference” che innalza il rapporto medico-paziente ad un livello più evoluto, in cui il primo non rincorre il capriccio del secondo ma avvalora, semmai, un uso sartoriale delle terapie (si parla per questo di “tailoring therapy”) tenendo conto tanto delle caratteristiche viroimmunologiche quanto di quelle farmacocinetiche e farmacodinamiche (assorbimento dei farmaci, effetti collaterali) e, in parallelo, delle necessità delle persone».
Promuovere un approccio individualizzato all’Hiv, un’ottica co-decisionale di gestione dell’infezione che includa i risultati di salute riferiti dai pazienti, è andare oltre la soppressione virale e la misurazione del successo terapeutico: è garantire a chi vive con Hiv un ascolto, una valutazione e integrazione della sua voce in un quadro di salute pubblica di cui ciascuno è parte. E dove non si lascia indietro nessuno.