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Hiv nelle donne: la “rappresentatività di genere” negli studi clinici

La popolazione femminile è ancora sottorappresentata nei trial clinici, compresi quelli su Hiv. Ne parla la Dott.ssa Licia Gozzi, medico in formazione specialistica presso UNIMORE

 
Ph Priscilla du Preez Unsplash
 

Anche se le donne che vivono con Hiv superano in numero gli uomini positivi al virus, e nonostante la loro carica virale sia più bassa ma di maggiore progressione, la popolazione femminile continua ad essere sottorappresentata negli studi clinici: la sperimentazione dei farmaci antiretrovirali ha infatti per tester una popolazione a larga maggioranza maschile/cisgender. 

Questa tendenza alla sottorappresentazione delle donne è riscontrabile nonostante le indicazioni di enti regolatori come AIFA (Agenzia Italia del Farmaco) ed FDA (Food and Drug Administration) - che raccomandano alle case farmaceutiche l’inclusione di un campione femminile pari al 30% negli studi randomizzati registrativi (quelli condotti dopo la registrazione e commercializzazione dei medicinali) - e l’avvio di trial clinici dedicati alla definizione di terapie antiretrovirali 'a misura di donna' come lo studio ARIA, improntato ad un approccio di genere nel trattamento dell’infezione da Hiv.

I motivi della limitata partecipazione delle donne - in particolare quelle gravide, le giovani donne in età fertile o le donne in menopausa, che rappresentano un “sottogruppo di vulnerabilità” nei trial clinici e nelle ricerche correlate - sono spesso non esplicitati e sovradimensionati rispetto ai reali rischi teratogenici” (di uno sviluppo anomalo degli organi fetali) associati ai farmaci.

L’equilibrio di genere e la facilitazione dell’ammissibilità delle donne al reclutamento negli studi clinici rappresentano, tuttavia, passaggi decisivi per garantire un’assistenza sanitaria equa: non solo molte patologie hanno decorsi differenti tra uomini e donne ma anche l'efficacia e la sicurezza dei trattamenti può variare in base a fattori biologici e sociali associati al sesso alla nascita. 

Non fanno eccezione gli studi sull’infezione da virus Hiv, per i quali le caratteristiche sesso-specifiche rappresentano un vettore essenziale all’estrapolazione di dati accurati sull’efficacia e la tollerabilità dei trattamenti: per la stessa composizione corporea e dell’apparato genitale, infatti, uomini e donne sono interessati da fattori di rischio differenti, oltre a relazionarsi diversamente alle terapie in termini metabolici e di tollerabilità ai farmaci antiretrovirali. 

Tra  maschi e femmine, inoltre, si riscontrano variazioni immunologiche: il sistema immunitario delle donne produce una risposta mediamente più forte, rispetto a quello maschile, mantenendo uno stretto controllo sul virus HIV nei primi anni d’infezione ma pagando questo stato di massima allerta nel lungo termine (con maggiori probabilità di infarti e ictus).

Ulteriori differenze sono riscontrabili a livello ormonale: i principali ormoni sessuali femminili, gli estrogeni, sembrano responsabili dell’accompagnamento del virus Hiv in uno stato dormiente che lo rende più difficile da contrastare tanto sul piano immunitario quanto su quello farmacologico. 

Per questo in ambito Hiv esiste una “medicina di genere” che valorizza le specificità di uomini e donne presupponendo una diversa suscettibilità al virus da parte delle persone di sesso femminile - tanto per caratteristiche anatomiche (le donne acquisiscono più HIV rispetto ai maschi) quanto culturali (le donne “contrattano” meno il sesso) - e cerca soluzioni alle problematiche connesse ai bisogni di ciascuno.

Come a livello assistenziale così in fase di ricerca è necessario destinare maggiore rappresentatività alle donne - che sono oltre la metà dei 35 milioni di persone viventi con lHIV nel mondo - per l’aggiornamento delle linee guida nel trattamento dellinfezione ed il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: assicurare la salute e il benessere per tutti e porre fine all’epidemia di AIDS.

Ne abbiamo parlato con Licia Gozzi, medico in formazione specialistica presso lUniversità degli Studi di Modena e Reggio Emilia, che ha evidenziato l’importanza di creare condizioni per favorire la partecipazione delle donne ai trial clinici tenendo conto dei ruoli (di madri e caregiver) che molte di loro ricoprono.

Come facilitare la partecipazione femminile agli studi clinici?

«Con valutazioni mirate: in certi casi potrebbe essere necessario discutere la pianificazione di gravidanze future, in altri potrebbe essere indicata lassunzione di contraccettivi per lintera durata del trial. In alcuni contesti sociali, invece, potrebbe essere il coinvolgimento del partner a facilitare la partecipazione femminile. Ed un’ulteriore agevolazione potrebbe venire dalla possibilità di non dover pagare i contraccettivi necessari, così da non gravare sulle finanze familiari. Dallo studio GRACE (Gender, Race And Clinical Experience Study) si evince che prendere in considerazione barriere specifiche per le donne durante larruolamento per uno studio può aumentare la partecipazione femminile. Tale studio ha evidenziato inoltre che potrebbe essere necessaria limplementazione di strategie per cercare di limitare la perdita femminile al follow up. È quindi essenziale una collaborazione preventiva tra medici e ricercatori per lo sviluppo di strategie di reclutamento appropriate per le donne e per affrontare eventuali ostacoli emergenti».

Sono più le ragioni biologiche o quelle culturali a disincentivare larruolamento delle donne?

«Probabilmente le ragioni biologiche incidono maggiormente sulla scelta di non includere in uno studio la popolazione femminile, mentre le ragioni culturali incidono maggiormente sulla scelta delle donne di non partecipare a trial clinici.Storicamente, le donne in età fertile o incinte sono state escluse dalla ricerca clinica a causa delle preoccupazioni per il potenziale danno al feto.Cattive condizioni socioeconomiche e scarso potere economico femminile, disuguaglianza tra i sessi e una bassa istruzione o una scarsa alfabetizzazione sanitaria influiscono invece negativamente sulla scelta, da parte della popolazione femminile, di partecipare a trial. Inoltre, come detto, le donne sono spesso le principali caregiver di familiari, il che può renderle meno disponibili. Anche richiedere alle partecipanti di ricorrere a metodi contraccettivi durante il periodo di studio può essere difficile, soprattutto in contesti culturali in cui la fertilità delle donne è un importante fattore sociale».

Quale il vantaggio di una rappresentatività parificata in tema di HIV? 

«Differenze di sesso e genere nella epidemiologia, nella sintomatologia e nella progressione sono state notate in molte condizioni patologiche, così come sono state notate differenze nella farmacocinetica e nella farmacodinamica dei farmaci, con conseguenti diverse risposte ai trattamenti e diversi effetti avversi. Lo studio di queste differenze può consentire una maggiore comprensione dellandamento naturale dellinfezione e della risposta ai trattamenti, consentendo una migliore gestione clinica e scelte più mirate».

Se sul piano della ricerca le donne sono sottorappresentate, su quello dellassistenza sanitaria sono mediamente più monitorate degli uomini, in ambito Hiv, grazie ai servizi di accesso alla gravidanza?

«Alle pazienti di sesso femminile, durante la gravidanza, viene sempre offerta l'esecuzione di un test di screening per Hiv, opportunità che, ovviamente, non si presenta agli individui di sesso maschile. Come si può facilmente intuire, tale offerta non viene presentata nemmeno alle pazienti di sesso femminile che non intraprendono gravidanze. Questa opportunità potrebbe far supporre che le donne possano essere maggiormente testate per HIV e, in effetti, parte della letteratura suggerisce che ciò possa essere vero.Daltra parte, però, probabilmente a causa del forte legame, ancora percepito, tra maschi che hanno attività sessuali con altri maschi e HIV, è possibile che vi sia maggiore attenzione sanitaria rivolta a una possibile infezione da Hiv quando il paziente è di genere maschile. Un recente studio osservazionale retrospettivo realizzato a Manhattan su persone con diagnosi di infezioni sessualmente trasmissibili ha infatti rivelato che le donne, più spesso rispetto agli uomini, non avevano eseguito test Hiv nei 12 mesi precedenti alla diagnosi di infezione sessualmente trasmissibile (15.1% vs. 25.8%). Tale studio ha inoltre riscontrato come, oltre a questo, alle donne venga raramente proposta la PrEP (profilassi pre-esposizione per Hiv) ove indicata (discussa la possibilità di PrEP con il 17% dei maschi vs. 1.1% delle femmine). Per motivi culturali, castità e monogamia femminile vengono spesso ancora viste come valori da preservare. Pertanto, l'esecuzione di controlli periodici riguardanti infezioni sessualmente trasmissibili in assenza di sintomi, può esser vista come lammissione di una eccessiva promiscuità. Nella sfera maschile, invece, gli atteggiamenti promiscui vengono più facilmente accettati. Di conseguenza, gli uomini eseguono controlli più frequenti relativi a infezioni sessualmente trasmissibili in assenza di sintomi. Questo è ancora più vero nellambiente LGBTQIA+, dove i temi della salute sessuale vengono discussi più spesso, rispetto allambiente strettamente eterosessuale. In estrema sintesi, se consideriamo la popolazione generale possiamo concluderne che sì, è possibile che le donne siano maggiormente testate per Hiv rispetto agli uomini grazie ai controlli prenatali standard. Tuttavia, all'interno di sottogruppi specifici come la comunità LGBT+, gli uomini sono testati più frequentemente per Hiv ed è più probabile che si sottopongano a screening periodici per infezioni sessualmente trasmissibili rispetto alla popolazione generale».

Come si inseriscono, in questo quadro di sottorappresentatività, le donne migranti?

«Quando avviene larruolamento in uno studio clinico è essenziale che i potenziali partecipanti vengano informati di tutto ciò che può avvenire durante lo studio e di come questo verrà affrontato, di ciò che viene loro richiesto partecipando e delle opportunità fornite dalla partecipazione al trial. Tutto ciò può essere particolarmente difficoltoso in presenza di una potenziale partecipante con barriere linguistiche e culturali.È inoltre possibile che la condizione di migrante porti con sé una scarsa scolarizzazione che rende ancora più complicata la comunicazione, e condizioni economiche che rendono difficoltosa la partecipazione in contesti in cui possono essere necessarie spese indirette per la partecipazione allo studio (spostamenti, babysitter), oltre a famiglie molto numerose da gestire».«In alcuni casi la partecipante non ha possibilità di muoversi autonomamente a causa della mancanza di patente o di un veicolo di proprietà, oppure non ritiene di poter decidere in autonomia, ritenendo necessaria lapprovazione del marito per poter scegliere se partecipare.Questi ed altri impedimenti, talvolta concomitanti, possono rendere più arduo larruolamento di donne migranti in trial clinici».


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Ultima Modifica: 03.09.2024 - 15:09